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RAPSODIA IN AGOSTO
(A CHIGATSU NO KYOHSHIKYOKW)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 marzo 1992
 
di Akira Kurosawa, con Sachiko Murase, Richard Gere, Hisashi Igawa, Narumi Kayashim (Giappone, 1991)
A 82 anni Kurosawa non crea più gli affreschi sontuosi di Kagemusha o di Ran, e nemmeno gli acquerelli delicati di Sogni. Piuttosto, sembra tornare a quei film intimisti che prediligeva negli anni Cinquanta: trova un'attrice che ha quattro anni più di lui (l'incomparabile Sachiko Murase), le fa interpretare il ruolo di una nonna della campagna vicino a Nagasaki che riceve i suoi tre nipotini in vacanza, e torna a dirci della Bomba. Non è la prima volta, infatti, che il grande maestro ci parla dell'angoscia atomica (successe in un episodio di Sogni, soprattutto in Cronaca di un essere vivente con Toshiro Mifune nel 1955): ma è la prima volta che lo fa a questo modo.

Qualcuno parla di film piccolo, altri d'antiamericanismo: Rapsodia in agosto non è uno né l'altro. Quando i nipotini visitano i monumenti che le varie nazioni hanno offerto in memoria ai morti di Nagasaki, manca in effetti quello degli Stati Uniti: "e per forza, chi ha buttato la bomba?", dice uno dei ragazzini. Ma, poco oltre, è la nonna a riassumere il pensiero del regista: "l'America mi è ormai indifferente, è la guerra, ogni guerra ad essere infame. "

Rapsodia in agosto non è un film sulla guerra, forse nemmeno sulla sopravvivenza: piuttosto uno psicodramma sulla vecchiaia, e sul suo modo di comprendere la gioventù. Scavalcando quell'età di mezzo che definiamo adulta, fatta d'interessi e di compromessi ambigui. Giunge in visita lo zio americano (Richard Gere, maturo come non mai nella sua carriera) che solo ora ha saputo delle cosa: fra i morti di Nagasaki c'era anche suo nonno, il marito della vecchina. E la vecchiaia, a questo punto, serve anche per annullare non solo il tempo, ma anche lo spazio: le sequenze fra il nippo-americano Richard Gere - che ha imparato qualche frase di giapponese - e Sachico Murase sono impagabili: "Va tutto bene, tutto bene", dice lei, un po' svanita, un po' calva per le radiazioni di allora. Lui insiste, il milionario che è venuto dalle Haway, per sapere cosa può fare. "Tutto bene", ripete lei. E, improvvisamente, in inglese: "Thank you. Very much".

Essere grandi, a ottanta e passa, è anche mettere una parola sola, ma al posto giusto. O una sequenza, una sola immagine: mentre sotto il portico di casa recitano le preghiere dell'anniversario del bombardamento, il più piccolo dei nipotini segue la fila delle formiche, che si disegna sul pavimento. Le cinepresa segue adagio: fino ai bordi del giardino, sullo stelo che s'innalza, verde e diritto, verso il cielo. Dove termina, la lunga fila laboriosa? All'interno di una rosa, rossa, immensa e solitaria sullo schermo, che si fonde alle preghiere della sera. Una sintesi poetica fremente, nella quale s'intuiscono tutte le emozioni che agitano gli animi in quel momento di raccoglimento. E il cinema con la maiuscola vive proprio di questi sedimenti nella memoria.

Sarà piccolo, in una carriera immensa, Rapsodia in agosto: ma ha quel potere di fuggire in un mondo che è precluso ai più. Come in quell'occhio che si spalanca in cielo, mentre la nonna racconta ai nipotini - con una serenità che ricorda quella esemplare delle saghe familiari di Ozu - com'era chiaro, poi improvvisamente scuro il cielo, dietro la collina verde, verso Nagasaki. Come nel finale, quando curva come il re Lear di Ran, corre piegata dalla tempesta con l'ombrellino ormai inutile, inseguita disperatamente dai nipotini. Come quando ai poeti anziani riesce il ricordo del passato, senza perdere l'intuizione del futuro.


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